29 ott 2017

colori

Troppe mattine mi capita di scambiare l'azzurro cielo dei miei occhi per acqua fangosa, di pozzanghera. Dice che è una cosa tipica delle persone rotte, questa di vedersi crepe e incrinature anche dove non ci sono.
Scivolo per le strade al ritmo frettoloso della mia ansia e catturo frammenti dei miei capelli, riflessi nelle vetrine. Sono rossi spenti, come una corona d'Autunno e mi incorniciano la pelle, bianca come un foglio.
Non c'è da sorprendersi se la gente si arrabbia, quando non riesce a scrivermi addosso.
Lascio che siano certi muri sbrecciati a parlare per me di resilienza, pazienza e sì, anche di disobbedienza. Perché lo faccio apposta, io, a essere me.

In cerca di un segnalibro improvvisato, tiro fuori un biglietto verde sbiadito dalla cover del telefono: è datato agosto 2017, è l'ingresso di una mostra, a Roma.
Nella memoria riappare dolorosamente la figura di mia sorella, in piedi di schiena contro il rosa sgargiante di una tela di Botero, il suo profilo di bambina che sta per crescere lontana da me.
E poi alle labbra riaffiora anche un nome.
Il nome di qualcuno che non è più nessuno, ormai.
Castani.
I suoi occhi erano castani.
Li prendo e li piego dentro a quel biglietto sbiadito, che inserisco fra le pagine di un libro qualsiasi, fingendo distrazione. Poi li infilo in borsa, insieme a cianfrusaglie e frammenti delle persone che faticosamente mi porto dietro.

Me li immagino tutti come fiori, quelli che non ci sono più; fiori bellissimi e colorati come tele di pittori colombiani: i loro petali non sbocciano mai dove posso vederli.


Questo racconto si ispira alla challenge "colori" del gruppo EsseCìEffe - Scrittura Creativa Firenze.


10 ott 2017

-Utsusemi-

Lui si accese una sigaretta e rimase in silenzio a fissare le tracce che lei aveva disseminato sulla penombra del pavimento.
Si sentiva il rumore del getto della doccia al di là del muro.
I raggi di sole si insinuavano a fatica fra le fessure dell’avvolgibile solo per infrangersi contro le spirali di fumo che salivano lente verso il soffitto.
Era sempre così, dopo che avevano fatto l’amore: lei scivolava via silenziosa come un’ombra e lo lasciava solo.
Ma in fondo lui preferiva così.
Aspirò un’altra volta dalla sigaretta, poi schiuse le labbra e lasciò che il fumo rotolasse fuori dalla sua bocca, languido e abulico come nebbia autunnale.
Si trovavano a due passi l’uno dall’altra, non c’era che una parete sottile a separare i loro corpi, eppure lui si sentiva come se avesse fatto l’amore da solo, e lei non fosse più importante di una qualsiasi ragazza vista di sfuggita su un volantino pubblicitario.
Di quell’amplesso non gli restava che un odore dolciastro intriso nella pelle, un odore di donna che gli faceva venire voglia di piangere.
Soffocò le lacrime insieme all’ansia nell’ennesimo tiro di sigaretta.
Si sforzò di pensare a tutto quello che gli piaceva di lei, per darsi un senso. Ma alla fine giunse alla conclusione che l’unica cosa che amava erano quei suoi oggetti sparpagliati sul pavimento.
E i vestiti, sfilati in fretta e lasciati cadere, ancora rigidi delle pieghe plasmate dal corpo, con la stoffa che faticava ad arrendersi all’evidenza del vuoto: quei vestiti conservavano in sé la nostalgia delle cose che gettiamo via senza pensarci, degli scontrini del caffè che si accumulano senza un perché nel portafogli, delle conchiglie tutte uguali raccolte in riva al mare, da bambini.
Se ne stavano lì, vuoti e freddi come gusci di cicale, e lui li amava proprio come si può amare una vecchia fotografia in bianco e nero, o una promessa già da tempo consumata.
Li amava come i treni persi dopo una lunga corsa ai binari.
Li amava, insomma, come tutto ciò che sappiamo essere andato e non tornare mai più.



15 set 2017

Il mostro allo specchio

Ciglia fitte intrappolavano la luce del sole, proiettando un’ombra scura sulle sue guance.
Era il sesto mese dell’ennesimo anno. La pelle diafana catturava la luce del tramonto suscitando in chiunque l’avesse guardata la stessa sensazione di quando si guarda un campo di grano maturo.
Sfrecciando sulla sua bicicletta, la ragazza scivolava silenziosamente da una pozzanghera di luce che filtrava tra le fronde degli alberi all’altra.
Lei sapeva che quel gioco di ombre aveva un nome, nella lingua di un paese lontano.
Sapeva che anche quello che provava aveva un nome, un nome dolce e aspro insieme. Un nome che faticava a scivolarle fuori dalle labbra serrate.
Era come se la sua anima le si fosse accartocciata in gola: l’aria passava giù per la trachea ma si sentiva soffocare lo stesso.
Se avesse provato a espellerlo, il suo cuore si sarebbe trasformato in una matassa di spilli; avrebbe aperto la bocca e tossito sangue.
“Pedalare. Pedalare risolve tutto, di solito”, pensò.
Una gamba dopo l’altra, tentava di sciogliere quel gomitolo infeltrito di pensieri.
Poi si fermò di colpo sullo sterrato e guardò l’airone, nel ruscello. Anche lui la fissava.
Scambio di sguardi di un attimo; poi quest’ultimo spiegò le ali e volò via.
La ragazza era sola.
Questo pensiero le piovve addosso e fu come se un asteroide l’avesse colpita in pieno.
Anzi no.
L’asteroide almeno avrebbe messo la parola fine a quella sofferenza.
Mollò la bici sul sentiero e scese a passi lenti verso l’argine del torrente. Si chinò con la moderazione che accompagnava a tutti i gesti che si auto imponeva.
Il ruscello le restituì un’immagine di sé spezzettata, come se qualcuno si fosse divertito a frantumarle la faccia.
Ma in fondo era così che si sentiva. Nessuno specchio le avrebbe mai restituito un riflesso tanto fedele.
Eccola lì, ridotta a brandelli, irriconoscibile, una “signora nessuno” sul cui volto luci e ombre facevano a pugni all’infinito, eccolo il suo groviglio di emozioni che si ingarbugliava sulle increspature dell’acqua, piccole onde inquiete di rabbia e speranza.
Si sedette sull’erba e si volse verso le nuvole aranciate del tramonto. Tutto era bellissimo, tutto tranne lei.
Rivolse al cielo lo sguardo meno umano che possedeva, quello meno espressivo, più glaciale, quello che usava quando voleva mettere almeno un centinaio di muri di pietra fra sé stessa e quel mondo che giocava a masticarla e sputarla via.
Eppure almeno il ruscello scorreva in una direzione precisa; la sua angoscia sarebbe stata lavata dalle onde dell’oceano.
La ragazza, invece, in che direzione stava scivolando?
“Siamo simili”, pensò, “come se ci guardassimo allo specchio”.
Si rialzò, raccolse la sua bici, la sua anima sciocca di bambina, il suo sguardo meno umano.
Ma si lasciò alle spalle la vera sé, quella riflessa nel ruscello, quella riflessa negli occhi di lui.  



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